Non è bastato il cuore, non è bastata l’energia; Mattia Bellucci, esce comunque a testa alta dal Campo 1; con Cameron Norrie, nel suo primo terzo turno Slam in carriera, l’azzurro ha assaggiato la vertigine dei grandi palcoscenici e anche se il match è finito nelle mani dell’inglese, rimane il sapore autentico di quelle esperienze che ti formano, oltre il risultato, proiettandoti su quei palcoscenici che in tanti ammirano, ma su cui in pochi hanno il piacere di giocare.
“Giocare un terzo turno a Wimbledon, con gli stadi pieni e un’atmosfera del genere, è una cosa che non avevo mai vissuto, me la porterò dietro per sempre”, racconta Bellucci, che nel post-partita si presenta in conferenza stampa con la solita educazione, con quell’eloquio forbito non comune a tutti i tennisti, ma soprattutto con una consapevolezza nuova, quella di chi ha visto da vicino quanto sia stretto il margine tra chi arriva e chi resta.
L’inizio, poi il calo: “Dovevo continuare come nel primo game”
Era partito bene, molto bene. Il primo game del match sembrava il preludio a un’altra impresa, come quella del primo turno. Break immediato, 2-0 e 0-40 con possibilità di doppio break che non è arrivato: “Forse alcune cose che non hanno funzionato nel primo set me le sono portate dietro troppo a lungo”, ammette. “Non riuscivo più a ottenere quello che volevo dal servizio, non trovavo le soluzioni. Ogni tanto spingevo ma non ottenevo abbastanza. Altre volte non spingevo proprio, e allora era Norrie a prendere in mano lo scambio”.
E qui la riflessione si fa tecnica, come da abitudine. Bellucci non banalizza, non si rifugia in alibi. Analizza con cura, anche se a tratti lo fa in punta di piedi, con pudore. “Lui ha una grande capacità di mischiare le carte, con traiettorie opposte tra dritto e rovescio. Ti costringe sempre a giocare una palla in più. E oggi io, che ero un po’ teso, ho faticato tantissimo”.
Il piano B che non arriva: “Mi sono perso tra le sensazioni”
In certi momenti della partita è sembrato quasi monocorde, mancando in quello che era stato uno dei suoi fondamentali, ovvero la varietà di gioco, come se il cervello non riuscisse più a comunicare col braccio. “Non è che non volessi cambiare, è che non sapevo come farlo. Le sensazioni che avevo in campo mi dicevano una cosa, ma la realtà era un’altra. E così non trovavo un piano B”, confessa.
Non si nasconde dietro a nulla, anzi si mette a nudo con sincerità disarmante: “Quando mi trovo in difficoltà emotiva o fisica, come oggi, e non ho dalla parte del servizio un’arma su cui contare, faccio più fatica.”.
L’onestà di un ragazzo che ha fame: “Non mi basta stare tra i primi 60”
Gli chiedono se si accontenterebbe di restare a ridosso della top 60, zona di comfort per molti, ma non per lui. “Il mio obiettivo è crescere. Non mi basta questa posizione. Voglio vedere dove posso arrivare”, dice con lo sguardo fisso nel vuoto, come se già stesse pensando a domani. E poi aggiunge, quasi parlando più a sé stesso che alla sala stampa: “So che il mio livello sale quando riesco a fare bene le cose nella quotidianità. La crescita vera passa da lì”.
C’è anche spazio per un’ultima riflessione, più ampia, che va oltre i confini dell’erba e delle righe bianche. Gli fanno notare come Zverev e Tsitsipas abbiano recentemente parlato della fatica mentale, della solitudine, di un mondo che, anche da vincenti, può fare male. Bellucci non minimizza, ma trova il suo equilibrio: “Sì, è stressante, ma siamo anche privilegiati. Qualche volta me lo dimentico, ma giocare sul Campo 1 di Wimbledon è un sogno e non è per tutti. Se fosse facile, lo farebbero tutti”.
Alla fine, la conferenza stampa di Bellucci è un piccolo saggio di crescita. Nessuna frase fatta, nessuna dichiarazione roboante, solo la consapevolezza di essere nel posto giusto al momento giusto, anche se oggi non è andata come sperava.
“Questa partita mi ha dato tanto. So che devo lavorare, ma anche che sto percorrendo la strada giusta”.
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Autor: Carlo Galati