Sono passati ormai più di tre anni dal suo addio al tennis: era un giorno di maggio del 2022, nell’amato “Philippe Chatrier”, avversario di giornata Casper Ruud, in un match tutt’altro che scontato e finito solo al quinto match con la vittoria del norvegese. Da quel giorno è calato il sipario sul tennista, ma Jo-Wilfried Tsonga non ha mai smesso di pensare, di riflettere, di mettersi in discussione. Lo ha fatto, con sorprendente apertura, in una lunga intervista concessa al content creator Kevin Ferreira: due ore e 43 minuti di confessioni, aneddoti e retroscena su YouTube, dove l’ex top-5 francese ha rivelato senza giri di parole cosa significhi vivere da professionista ai massimi livelli. Ne è venuto fuori un ritratto intimo, vivido, ricco di spunti umani e sportivi. Più che un’intervista, un diario orale. Di una carriera vissuta sempre a testa alta, tra picchi straordinari e momenti controversi. Dove il tema del denaro, dell’identità e della lingua tornano più volte, come fili rossi di un racconto più profondo di quanto sembri.
“Non riuscivo a bere, poi ho accettato un milione per un’esibizione”
Il momento più discusso della conversazione arriva a circa metà del video, quando Tsonga ripercorre la travagliata finale di Coppa Davis 2014, disputata a Lille tra Francia e Svizzera. Un weekend rimasto nella memoria collettiva per il trionfo di Federer e Wawrinka, ma anche per l’assenza in campo di Jo dopo il primo giorno.
“Stavo malissimo – spiega – avevo un dolore lancinante al braccio. I medici tentarono il tutto per tutto, mi fecero tre iniezioni di cortisone in 24 ore, una roba folle. Non riuscivo a sollevare nemmeno un bicchiere. Alla fine dissi stop, non potevo scendere in campo così. Fu dura da accettare, e ovviamente venni criticato”.
Fin qui, nulla di nuovo. Ma la parte che sorprende arriva subito dopo. Tsonga racconta di aver ricevuto, in quei giorni, un’offerta per partecipare a una serie di esibizioni in Asia con un compenso da un milione di dollari. “Era una settimana di match corti, con pochi game. Una passerella, niente di più. Però mi sono trovato davanti a una scelta: accettare i soldi e investire su me stesso oppure rifiutare per non sembrare un ipocrita. Ho scelto la prima”.
Il francese parla di “Million Dollar Baby”, con ironia amara, sapendo di essersi messo in una posizione delicata. “Sapevo che mi avrebbero attaccato. E in effetti, qualcuno lo fece, ma ero consapevole, lucido. Quei soldi non erano uno sfizio: servivano per portare avanti la mia carriera, per pagare lo staff, i preparatori, per investire nella mia salute”.
L’evento in questione era la IPTL – International Premier Tennis League, un circuito-esibizione ideato per promuovere il tennis nei mercati emergenti, con tappa a Manila, Singapore, New Delhi e Dubai. Tsonga partecipò tra fine novembre e metà dicembre 2014, poco dopo il forfait in Davis.
La sua versione, per quanto sincera, presenta qualche semplificazione. Non si trattò di cinque match brevi, ma di otto singolari e undici doppi, disputati con regole particolari (set a sei game, no-ad, tie-break sul 5-5), per un totale di venti set in due settimane. Altro che passerella.
E anche sul fronte economico, le cifre raccontano una verità meno sensazionale. Il milione citato da Jo era riservato alla squadra vincente dell’intero tour; il suo cachet personale sarebbe stato attorno ai 500.000 dollari. Resta comunque una somma imponente, soprattutto considerando che veniva da un infortunio, ma l’onestà con cui oggi ammette di aver messo sul piatto la propria reputazione per un tornaconto personale è, in fondo, rara nel mondo dello sport. Guardare ad alcune dichiarazioni post Six Kings Slam ad esempio.
“Parlare inglese, ecco cosa avrei dovuto fare meglio”
Chi si aspettava rimpianti tennistici resterà sorpreso. Il vero rammarico di Tsonga non è legato a un colpo o a un match, bensì a una barriera linguistica. “Il mio più grande rimpianto è non aver imparato bene l’inglese. Per anni ho vissuto il circuito da straniero. Parlavo male, mi sentivo fuori posto. Oggi riesco a tenere una conversazione, ma non è mai stato naturale. E questo mi ha chiuso tante porte”.
Parole che raccontano molto più di quanto sembri. In un mondo globalizzato come quello del tennis, la lingua è tutto: accesso a coach di livello internazionale, dialogo con i media, possibilità di creare relazioni significative. “Avrei dovuto affidarmi prima a tecnici stranieri. In Francia ho preso quello che c’era. Dall’estero ho avuto solo Rasheed e Bruguera. Bravi, ma troppo poco. Non ho mai veramente aperto la mia squadra al mondo”.
In un’epoca in cui i top player vivono circondati da staff internazionali, il francese ammette di essere rimasto troppo ancorato alla sua comfort zone. Un limite che, forse, ha condizionato la sua evoluzione a lungo termine.
“Se avessi vinto uno Slam sarei una persona diversa? Più felice? Non credo. Avrei qualche milione in più in banca, ma è un piacere effimero. La felicità non è lì”.
Una frase che sembra voler mettere un punto su un discorso spesso affrontato: Tsonga, talento esuberante, estroso, sempre vicino al grande colpo, non è mai riuscito a piazzarlo, ma il suo bilancio resta positivo. Per la carriera costruita, per i picchi raggiunti, per le emozioni che ha regalato.
L’impresa di Toronto: “Contro i Big Three esci sempre malconcio”
C’è spazio anche per i ricordi luminosi, come la straordinaria cavalcata al Masters 1000 di Toronto 2014, quando Tsonga batté Murray, Djokovic e Federer nello stesso torneo. “Fu un’impresa incredibile, ma devastante. Contro Djokovic devi dare tutto, contro Federer devi essere chirurgico, con Murray ti trascina nel fango. Alla fine della settimana urinavo sangue. Il corpo era andato oltre”.
Un’immagine forte, che racconta meglio di mille parole quanto sia costoso – fisicamente e mentalmente – competere a quei livelli. Tsonga, nonostante non abbia vinto uno Slam, ha battuto tutti. E questo, per lui, basta.
In chiusura di intervista, Jo torna su sé stesso, raccontandosi come uomo, oltre che come giocatore. Parla del ritiro, della famiglia, della voglia di restituire qualcosa al tennis. E soprattutto della consapevolezza, maturata col tempo, di essere stato un personaggio unico nel suo genere.
“Io ero diverso. Non il più forte, ma uno che portava energia. Uno che ci metteva l’anima. Sorrido quando la gente mi ferma e mi dice ‘Jo, ci manchi’. È il miglior complimento che possa ricevere”.
E in effetti, manca davvero. Il sorriso largo, il dritto esplosivo, le esultanze teatrali, quella fisicità da rugbista prestato al tennis (sarebbe stato un’ottima terza centro, numero 8). Jo-Wilfried Tsonga è stato un gigante gentile, un giocatore capace di battere tutti senza mai perdere la sua umanità. E oggi, che si racconta con questa sincerità disarmante, ci ricorda quanto il tennis sia fatto anche di uomini, non solo di risultati.
A pagina 2 le considerazioni del nostro collaboratore Paolo Pinto
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Autor: Carlo Galati