Il tennis è lo sport dei riti, dei gesti simbolici e delle ossessioni: il vizio appagante e maniacale di non calpestare le righe mentre si passeggia per il campo, i polsini e il cappellino da buttare subito nel borsone appena finisce lo sforzo, come se ci stessimo spogliando dell’armatura, il numero compulsivo – sempre uguale – dei rimbalzi della pallina appena prima di caricare il servizio, che ci aiuta a trovare il ritmo, oppure, ancora, la racchetta che gratta sulla terra battuta, disegnando una piccola luna, e cerchia il segno della palla. “Lunga!”, con la faccia falsa e mortificata, peccato, di poco, e il pollice che si avvicina all’indice, ma senza mai sfiorarlo. Di poco.
Come sappiamo bene quest’ultima fotografia non esiste più, perlomeno a livello professionistico, perlomeno nei tornei più ricchi: il cerchio della racchetta è stato sostituito dal computer, provocando una frattura piuttosto significativa e, forse, per certi versi, indigeribile. L’introduzione del Live Electronic Line Calling sulla terra battuta non rappresenta solamente un’innovazione tecnologica: si tratta di una sfida con il nostro cervello e, di conseguenza, di una sfida piuttosto difficile da accettare. L’ATP, un paio di mesi fa, aveva presentato la rivoluzione con un video, perfetto, di circa 90 secondi, perchè adesso funziona così: un video che non lasciava spazio alle sfumature dei dubbi, risolvendo quasi tutte le perplessità. Quasi tutte, tranne una: quella della natura umana.
Il nostro sistema è più accurato e più preciso dell’occhio umano
Partiamo dalla rivoluzione e dalla sintesi di un’affermazione abbastanza impressionante, che cancella decenni di scaramucce da circolo: ci sono dei casi in cui il segno lasciato dalla pallina è più esteso dell’effettivo impatto. Ci sono dei casi, in poche parole, in cui il segno non è veramente il segno, perchè l’impronta della pallina non è veramente la pallina, perchè l’impatto con il terreno “comprime” il marchio della nostra amata sfera gialla, e già mi gira la testa. Questa “differenza” può derivare dalle condizioni del campo e dalla quantità di terra battuta: un campo umido amplifica la grandezza della traccia, un campo asciutto, al contrario, la riduce. Un campo ricoperto da poca terra, ancora, ridimensiona il volume del segno, un campo pieno di terra, invece, lo dilata.
Dovete fidarvi di noi, dei nostri calcoli e delle nostre telecamere, che non scattano una foto, ma misurano e riproducono – con un margine di errore minuscolo – la posizione esatta del rimbalzo di quella maledetta palla. Dovete fidarvi di noi, del sistema, e dovete dimenticarvi dei vostri occhi. L’immagine che state guardando è l’immagine disegnata da uno specchio rotto, la realtà non è veramente la realtà, e allora vale tutto, e il tennis diventa “Inception”. “Non capisco, non ha senso. Il segno della palla è una prova fisica”, ed esprimiamo tutta la nostra solidarietà al talento mancino di Alex Eala, la giovanissima filippina che nel corso del match con Swiatek a Madrid ha contestato una mancata chiamata su un servizio della sua avversaria. Il segno è una prova fisica, ma – perlomeno sul rosso – è una prova alterata: non era tutto più semplice quando c’erano i giudici di linea che allargavano il braccio? Chiedo.
Dopo alcune settimane di studio e di diffidenza silenziosa, nel corso del 1000 spagnolo sono esplose le polemiche, perchè il cervello dei tennisti aveva costruito una memoria diversa, perché un tennista normale perde tutte le settimane, e una nuova scusa non si rifiuta mai: “Nel match con Comesana non hanno chiamato un suo servizio che era lungo almeno di 3 centimetri, mi hanno derubato” ha dichiarato il numero 14 Arthur Fils, prendendola con filosofia.
E poi è arrivato Zverev, che ha fatto Zverev, concentrandosi su un segno palesemente sbagliato e scattandogli pure una foto: “E’ stato chiaramente un malfunzionamento del sistema, ne parlerò con l’ATP e con tutti i supervisor, non accetto un errore di 5 centimetri!”, chiudendo così, citando il mitico Fabio Noaro, la polemica tra “me e il sottoscritto”: “Non me la sono presa con Lahyani, secondo il regolamento non poteva scendere dal seggiolone, non è stata colpa sua”, anche perchè se l’arbitro svedese si fosse gustato la classica (e sorridente) scampagnata verso il segno si sarebbe sicuramente accorto che la lente d’ingrandimento dell’ispettore Sascha aveva (inconsapevolmente?) inquadrato la traccia sbagliata.
Taylor Fritz ha provato a mettere sul tavolo una questione tecnica: “Per uno come me, che non è cresciuto sulla terra battuta, fermare il punto e dare un occhio ai segni durante lo scambio, cercando di capire se la palla sia dentro o fuori, è molto difficile. Mi piace il fatto che possiamo continuare a giocare finché non sentiamo la chiamata: non c’è più una zona grigia e non mi interessa se ogni tanto può esserci un errore, almeno si tratta di un sistema coerente”.
Altri giocatori – come Keys, Svitolina e de Minaur – hanno ammesso di provare un pizzico di imbarazzo per il nuovo metodo (che, incredibilmente, dopo mesi di rifinitura, non verrà utilizzato al Roland Garros, dove rivedremo improvvisamente in campo i giudici di linea) ma allo stesso tempo non rimpiangono la frustrazione della vecchia terra battuta e delle discussioni infinite con gli arbitri. Fils ha replicato così, inquadrando un tema molto interessante, quello del ruolo del giudice di sedia, ormai ridotti a semplici contabili del punteggio: “Non servono più a niente, non capisco quale sia il loro compito: bisogna tornare al vecchio sistema con i giudici di linea”.
L’introduzione di “Hawk Eye” – che nel 2026 compirà 20 anni – ha rappresentato un momento di svolta nella storia dello sport mondiale: il tennis è diventato un esempio virtuoso e un punto di riferimento per tutte le altre discipline, con un utilizzo innovativo, corretto, coinvolgente e perfino “spettacolare” della tecnologia. Il Covid e il lockdown hanno accelerato un processo abbastanza inevitabile, ovvero quello della sostituzione dei giudici di linea sulle superfici rapide (dove il marchio del segno della palla non esiste), che sono stati rimpiazzati da un computer e da una voce automatica: la sensazione è che con il Live Electronic Line Calling – e ci riferiamo alla versione da terra battuta – il nostro sport si sia però un po’ accartocciato su sé stesso, alla ricerca di una perfezione che non può esistere. Il tennis è per certi versi lo sport dove l’impatto degli arbitri è più limitato (mi auguro per voi non tifiate una squadra di basket) e l’errore, specialmente se infinitesimale, fa parte del gioco: stiamo parlando di millimetri, stiamo parlando – al massimo – di ripetere un punto, in una disciplina, peraltro, molto più onesta delle altre, nella quale difficilmente le partite vengono decise da un singolo episodio.
I giocatori sono competitivi per natura e, come dicevamo in precedenza, sempre a caccia di fantasmi: se non potranno litigare con gli arbitri, litigheranno con un computer, se non potranno litigare con un computer, litigheranno da soli, e così via. Troveranno (troveremo) sempre una scusa in più, un nuovo soggetto a cui addossare la colpa: è la nostra natura, è il sale della competizione, è il contorno dello spettacolo. E – tutto sommato – va bene così.
Lo spread – anche se credibilissimo – tra la prova del segno “del campo” e il segno “della telecamera” rischia seriamente di diventare un dualismo inutile e soprattutto – nell’epoca della comunicazione – troppo faticoso da spiegare e da “raccontare”. La storia tra la terra battuta e il Live Electronic Line Calling è nata come una storia sbagliata: e forse i fenomeni del gioco, per una volta, invidieranno il primo weekend outdoor dell’anno dei tennisti amatoriali. Con l’armatura dei polsini e del berretto scolorito e, perché no, con la racchetta che gratterà il terreno, disegnando una piccola luna e cerchiando il marchio polveroso della palla. Un marchio praticamente incomprensibile, ma solo perchè i nostri colpi hanno la retromarcia. Ma solo perchè tiriamo troppo piano. Poi urleremo “Lunga!”, con la faccia falsa e mortificata: peccato, di poco. Il pollice si avvicinerà all’indice, ma senza mai sfiorarlo.
E saremo felici.
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Autor: Jacopo Gadarco