Nicolas Mahut è uscito di scena. A Parigi, in doppio, davanti al suo pubblico. Il 43enne francese è stato sconfitto all’esordio del Rolex Paris Masters. In coppia con Grigor Dimitrov, Mahut ha perso l’ultimo match della sua carriera per 6-4 5-7 10-4, contro Hugo Nys ed Edouard Roger-Vasselin, dopo circa un’ora e mezza di partita. La decisione del ritiro definitivo era arrivata a fine aprile. Nel mentre, il tennista transalpino ha continuato a giocare nella specialità che più gli ha regalato soddisfazioni durante la carriera: il doppio. Ma lo ha fatto con scarsi risultati, anche a causa dei numerosi infortuni che non gli hanno consentito di esprimersi al meglio in campo.
In questa specialità Mahut si è issato sino alla prima posizione mondiale e ha vinto ben 37 titoli: 5 Slam su 8 finali (ha vinto tutti i Major in coppia con il connazionale Pierre-Hugues Herbert, il Roland Garros due volte), 2 ATP Finals su 3 ultimi atti giocati e 7 Masters 1000 su 12 finali disputate. Nel 2017 ha vinto la Coppa Davis con la Francia e in singolo ha conquistato al massimo la 37esima piazza in classifica. Per lui, 4 titoli nei tornei individuali, tutti ATP 250 su erba. Il miglior risultato in uno Slam è il quarto turno raggiunto a Wimbledon nel 2016. Da ricordare, poi, ci sono le sue vittorie al Queen’s contro l’allora numero 2 al mondo Rafael Nadal (nel 2007, lui era fuori dalla top 100 mondiale) e contro il quarto giocatore in classifica del tempo, Andy Murray (nel 2012). Infine, storica è la sua sconfitta nel match più lungo nella storia del tennis: a Wimbledon, nel 2010, contro John Isner.
Della sua carriera, di questi traguardi, ma anche delle difficoltà passate, Mahut ne ha parlato in una splendida intervista rilasciata a Julien Reboullet per ‘L’Equipe’, che ha tracciato le tappe più importanti del suo percorso attraverso un ‘modus operandi’ semplice ma estremamente efficace, ovvero quello di far ricordare al tennista il giorno in cui un determinato evento è accaduto. Di seguito, un estratto delle sue dichiarazioni.
Il giorno in cui hai deciso che saresti diventato un tennista professionista
“Ogni anno, all’inizio dell’anno scolastico, quando dovevo compilare il modulo informativo, alla voce ‘professione desiderata’ scrivevo ‘giocatore di tennis’. Ma è stato quando la Francia ha battuto 3-1 gli Stati Uniti nella finale di Coppa Davis del 1991 che ho preso la mia decisione definitiva. Non avevo ancora 9 anni, ma mi ero detto che anch’io volevo vincerla”.
Il giorno in cui il doppio è entrato nella tua vita
“Ero un bambino e facevo il tifo per mia madre durante le partite interclub una domenica alle 9 del mattino. Lei era classificata attorno al 30° posto; era molto positiva e incredibilmente energica in quello sport. Continuava a ripetermi: ‘Sai, quando giochi in doppio o in squadra, non giochi solo per te stesso’. Questo significava che quella era una cosa ancora più importante. Questo mi è sempre rimasto impresso”.
Il giorno in cui hai scoperto il tennis su erba
“Durante un tour junior in Inghilterra, nel 1999. Non facevo altro che tuffarmi (ride, ndt). Per me il campo in erba significava Boris Becker. E Becker si tuffava continuamente. Mi ero detto che quella superficie sarebbe stata difficile da domare, ma che il rimbalzo basso mi avrebbe favorito. In ogni caso, quando i tuoi idoli si chiamano Edberg e Sampras, non puoi fare a meno di amare i prati”.
Il giorno (anzi, i tre giorni) in cui hai disputato una partita da 11 ore e 5 minuti contro John Isner, a Wimbledon 2010
“Quando torno a Wimbledon con mio figlio, passeggiamo tra i viali del torneo più importante al mondo, ci fermiamo davanti al campo 18 e vediamo, sul muro, la targa con il mio nome, quindi anche il suo, e provo un immenso orgoglio. Avrei potuto vincere altri 5 o 6 titoli, altri 2 o 3 Slam in doppio, ma questo non avrebbe cambiato la mia carriera. Non ero abbastanza forte per lasciare un segno nella storia di questo sport con i miei risultati. Quella partita, invece, lascerà un segno indelebile. Per molto tempo è stato difficile per me parlarne, perché c’era un divario molto importante tra ciò che il pubblico e gli osservatori hanno potuto vivere in quella partita e la mia percezione personale. Io avevo ancora perso. Ero in un momento in cui pensavo che la mia carriera consistesse principalmente nel perdere grandi partite con scenari incredibili. Tutto è cambiato dopo il mio primo titolo in singolo (nel giugno 2013 a ‘s-Hertogenbosch, ndt) e quando abbiamo vinto il nostro primo Slam in doppio (US Open 2015 in coppia con Pierre-Hugues Herbert, ndt). Il ricordo della partita contro John ha smesso di essere doloroso: non ero più solo un magnifico perdente”.
Il giorno in cui ti sei reso conto che quella partita ti ha reso più forte
“Nel 2010 ero un giocatore fragile che trovava facilmente delle scuse per uscire dalla partita. Quel giorno sono entrato in una dimensione mentale che non sono mai più riuscito a esplorare. Avevo voglia di trovare soluzioni, di superare i miei limiti. Punto a punto, ho trascorso un’ora e mezza, seduto a un game dalla sconfitta, ai cambi di campo, tra il 4-5 e il 68-69 nel quinto set. Per il resto della mia carriera questo mi ha aiutato ad aumentare il livello di intensità della mia concentrazione”.
Il giorno in cui ti sei reso conto che è in doppio che avresti vinto i titoli più importanti
“Lo sapevo già dai tempi dei tornei junior. Non mi sono mai permesso di avere gli stessi obiettivi nel singolo e nel doppio. Non so se fosse la paura di crederci, ma sentivo di non avere lo stesso potenziale. Non avevo quella fiducia naturale e non mi sono concesso la possibilità di essere migliore nel singolo. Anche nel doppio, questa convinzione è arrivata tardi, è stato un vero lavoro”.
Il giorno dell’emozione più intensa che hai provato in campo
“La scarica di adrenalina più forte è stata la vittoria in doppio allo US Open 2015. Avevo 33 anni e avevo l’impressione che quella fosse forse la mia ultima occasione per vincere uno Slam, perché all’epoca non si immaginava che le carriere potessero durare così a lungo. Il punto decisivo non durò molto, ma è il momento in cui ho raggiunto il picco emotivo. Poi c’è il titolo a Wimbledon 2016, la soddisfazione interiore più potente. E quello del Roland Garros 2018, con mio figlio che entra in campo alla fine: un’immagine che rimarrà impressa per sempre nella mia mente. Imbattibile”.
Il giorno in cui appenderai definitivamente la racchetta al chiodo
“Anche se mi sono preparato, perché sono stato infortunato per quasi un anno a causa della mia ernia e ho vissuto momenti di dolore davvero poco divertenti, questo mi angoscia. Spesso si parla di piccola morte, ma è proprio così. Per trent’anni mi sono alzato con degli obiettivi. E ora cosa succede? È per questo che mi pongo molte sfide. Ora ho giornate estremamente intense con diversi ruoli: come allenatore (di Benjamin Bonzi, ndt), consulente (per Eurosport, ndt), organizzatore di tornei (Angers, ndt) … Faccio in modo di lasciarmi pochissimo tempo libero. Forse un po’ per paura del vuoto”.
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