C’è una domanda che si fa sempre più assillante: è ancora possibile esprimersi liberamente senza il timore di inciampare in un’indignazione collettiva, il più delle volte sproporzionata, e che si scatena con estrema violenza sui social? Partiamo da due episodi recenti, tra loro molto diversi, ma accomunati da una dinamica ricorrente.
Da una parte il caso Musetti. Non torneremo sui dettagli di quanto accaduto durante il torneo di Pechino, se n’è parlato fin troppo — il punto è un altro, più ampio. La possibilità di sbagliare, di commettere un errore, di essere spontanei sembra essersi dissolta nel mare dell’iper-sorveglianza digitale. Ogni frase è potenzialmente una miccia pronta a far esplodere il dissenso più feroce. Un’esternazione infelice e fuori luogo, pronunciata quasi con goffaggine, può provocare una tale shit storm da rendere difficile l’evacuazione delle scorie, avendo ormai macchiato immagine e reputazione.
Un altro episodio significativo riguarda Anna Kalinskaya. Durante un’intervista rilasciata alla testata online First&Red in occasione dello US Open 2025, la tennista russa si è raccontata con estrema franchezza: l’infanzia, il rapporto con i genitori, la carriera e i propri obiettivi personali. A un certo punto, il tono della conversazione si è fatto più leggero e frivolo: parlando delle relazioni tra tennisti, Kalinskaya ha scherzato su Holger Rune, raccontando che lui l’avrebbe tempestata di messaggi, ai quali però lei non ha mai risposto. Il racconto, privo di malizia e narrato con tono divertito, ha contribuito a dipingere Rune più come uno scolaretto impacciato che come un giovane intraprendente. Nel giro di pochi minuti la clip ha innescato un’ondata di commenti pungenti, offese, letture moralistiche.
Le dichiarazioni della tennista russa sono finite all’istante sul banco degli imputati del tribunale social. Rune, chiamato a deporre, ha prontamente smentito le “terribili accuse”! Un’intervista nata per mostrare lati inediti della tennista moscovita si è presto trasformata in detonatore di commenti malevoli.
Il paradosso del politically correct
Il concetto di “politicamente corretto” acquistò rilevanza alla fine degli anni Ottanta affermandosi come un orientamento culturale fondato sul riconoscimento dei diritti delle diverse identità e volto a eliminare dal linguaggio abituale espressioni considerate offensive verso qualunque minoranza. Diffusosi con un intento nobile, oggi sembra essere diventato un’arma a doppio taglio. Secondo l’autore e linguista John McWhorter (Columbia University), «il politically correct nasce per promuovere il rispetto, ma ha finito per soffocare il dissenso e l’ironia». Si ha la tendenza ad ampliare continuamente il perimetro di ciò che viene considerato “scorretto”, al punto da renderlo un concetto sfuggente e potenzialmente illimitato, un vero e proprio pozzo senza fondo.
Nella sfera sportiva l’atleta non è solo un corpo da performance, ma anche una figura pubblica che, con ogni parola detta, rischia oggi di inciampare in gaffe maldestre o in veri e propri incidenti diplomatici. È una sorveglianza orwelliana dal basso, quella del web, dove chiunque può ergersi a giudice morale. E questo ha delle conseguenze.
Il giornalismo sportivo come spazio critico (che oggi si sta chiudendo)
Chi scrive di sport lo sa bene: non ci si può accontentare del resoconto tecnico, si vuole indagare la persona, la complessità interiore, scovare l’aneddoto curioso. È questa dimensione che arricchisce il racconto sportivo. Tuttavia, se gli atleti iniziano a chiudersi, a parlare solo per frasi fatte, per evitare “problemi”, a perdere la voglia di raccontarsi… allora il discorso pubblico si impoverisce.
Vogliamo vedere il dettaglio umano, l’errore che rende reale un campione… ma appena lo otteniamo, i leoni da tastiera lo sbranano. Questo dualismo ha un effetto collaterale grave: l’autocensura, che porta all’appiattimento del discorso pubblico, non solo nello sport, ma anche nella scrittura, nel cinema, nella creatività in generale.
L’equilibrio tra rispetto e libertà d’espressione è più che mai fragile oggigiorno. Il politically correct ha avuto e ha tuttora un ruolo importante. Ma se si trasforma in dogma, rischia di soffocare la complessità del reale, fatta anche di ironia, imperfezioni, fraintendimenti. Gli atleti sono esseri umani, non manichini. E anche chi racconta le loro storie ha bisogno di spazio per scavare, approfondire e criticare.
Forse dovremmo tutti — utenti, giornalisti, tifosi — rieducarci al contesto, alla proporzione, alla pazienza di leggere fino in fondo, di informarci prima di commentare, di accettare che non tutto è bianco o nero. Perché una società che ha paura di dire quello che pensa… finisce per non pensare più.
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