Li si vede giocare, settimana dopo settimana, ma spesso non si conosce lo sfondo della loro vita. Soprattutto se si tratta di quei giocatori che ondeggiano tra circuito Challenger e ATP. Damir Dzumhur è un perfetto esempio di quanto appena detto. Il 32enne bosniaco, numero 63 al mondo (ma nel luglio del 2018 fu il 23esimo tennista nel ranking), sta provando a tornare nella porzione di classifica che ha frequentato per un po’ di tempo negli anni passati. Dal settembre scorso, due titoli Challenger (a Istanbul e Maia), una finale di un prestigioso Challenger 175 (a Cap Cana poche settimane fa), il penultimo atto al 250 di Bucarest (eliminato da Flavio Cobolli) e come ultimo risultato il terzo turno al 1000 di Madrid, dove è uscito per mano di Matteo Arnaldi.
E proprio al Mutua Madrid Open Dzumhur è stato intervistato da ‘Clay’, rivelando un periodo molto duro della sua vita, che per fortuna si è lasciato alle spalle. “Ero davvero vicino a morire…”, racconta Damir riferendosi a un episodio accaduto tre anni fa in quel di Parigi. “È stato qualcosa di molto improvviso e veloce. Ero al Roland Garros 2022, dove ho giocato contro Fernando Verdasco nel torneo di qualificazione. Poco dopo la partita ho sentito un forte dolore allo stomaco. Il dolore aumentava sempre di più. E a un certo punto ho capito che qualcosa non andava, perché non era un dolore normale, era molto forte e strano. Dopo aver consultato il medico del torneo, mi sentii sempre peggio e fui ricoverato in un ospedale a Parigi. Ho avuto un’infiammazione al pancreas piuttosto grave. Il medico che mi ha curato mi ha detto che ero fortunato a essere giovane e in forma, perché una persona più anziana o più debole avrebbe potuto facilmente morire a causa di quel tipo di infiammazione”.
Un frangente di vita buio, difficile da oltrepassare, che ti segna dentro e, come una cicatrice, rimane con te per tutta la vita nonostante il cervello cerchi di cancellarlo. La sfida? Non far sì che ciò che è accaduto infici le tue scelte future. Ma anzi, che diventi ulteriore benzina per tornare ancora più forte di prima. Facile a dirsi, molto meno semplice a farsi. “È stato un periodo molto duro, ma l’ho superato abbastanza in fretta. Sono tornato sul campo da tennis appena quattro mesi dopo quanto accaduto. Sono molto felice di poter avere una vita normale, di poter giocare a tennis, perché a quel tempo pensavo davvero che fosse la fine della mia carriera. Ho perso undici chili in pochi giorni. Di solito peso 66 o 67 chili e a quel tempo ne pesavo solo 55. È stato un periodo davvero difficile, ma quando sono tornato in campo ho iniziato ad apprezzare ancora di più il tennis. Sono felice di aver avuto una seconda possibilità”.
Per forza di cose, la grinta da lui dimostrata in quel periodo deriva dall’altrettanto difficile situazione in cui è nato. “Penso che gran parte di me, il mio spirito combattivo e l’energia che ho in campo derivino probabilmente da quel periodo, perché sono nato il 20 maggio, un mese e qualche settimana dopo l’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina e la presa di Sarajevo. La guerra iniziò il 6 aprile e nel mio Paese dovemmo sopportare quattro anni di occupazione. Ovviamente ero troppo giovane per ricordarlo, ma sono abbastanza sicuro che quello spirito combattivo derivi anche da quel periodo, non solo dal mio, ma anche dalla mia famiglia, dai miei genitori che sono rimasti a Sarajevo per tutto il tempo della guerra. Sono sicuro che mi abbia influenzato in modo positivo”.
La mente si sposta poi in maniera automatica verso la stella più luminosa che arriva da quei luoghi: Novak Djokovic, anch’egli vissuto in un frangente storico e geopolitico di guerra quando era bambino. Ma ora… “Influenza il tennis in tutto il mondo, soprattutto nei nostri paesi. Per questi piccoli stati, che hanno attraversato guerre e situazioni molto difficili, penso che sia un grande risultato avere Novak Djokovic tra noi. Qualcuno che ha vinto 24 tornei del Grande Slam ed è stato il numero uno per sette anni proveniva da un piccolo paese e ha spinto tutti i tennisti dei Balcani. Ha dimostrato che se ci si impegna davvero e si lavora duro, si può raggiungere il successo anche se si proviene da un paese privo di grandi strutture”.
Nonostante ciò, la scelta su chi sia il suo tennista preferito non sembra seguire le orme del suo passato. “Il mio idolo del tennis è Roger Federer, non posso dire che non fosse così. Il suo modo di giocare, il suo stile e, naturalmente, la sua influenza dentro e fuori dal campo erano enormi. Probabilmente la persona che ha avuto la maggiore influenza sul tennis è Roger. Trattandosi di uno sport individuale, è facile scegliere il migliore nel tennis, basta guardare i risultati. Il migliore è Novak. Se si considerano altri sport di squadra, come il basket o il calcio, i numeri sono relativi, poiché alcuni grandi giocatori non sempre entrano nelle squadre migliori. Novak ha vinto più tornei del Grande Slam e vanta molti altri record. Il migliore di sempre è sicuramente lui. Secondo me, però, la persona che ha avuto la maggiore influenza su di me, e probabilmente su molte altre persone, è Federer”.
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Autor: Andrea Binotto