C’era un tempo in cui il talento bastava a farsi notare, ma non a costruire una carriera. Un tempo in cui il tennis italiano sfornava promesse e poi le perdeva, una dopo l’altra. Diego Nargiso, campione juniores di Wimbledon 1987, è stato il volto più emblematico di quell’epoca: un mancino dal talento naturale, capace di un tennis elegante e coraggioso, ma senza una struttura alle spalle. Oggi, a 55 anni, guarda indietro con lucidità e serenità, e racconta, in un’intervista rilasciata a CLAY durante le ATP Finals di Torino, cosa mancò alla sua generazione e cosa invece funziona oggi, nell’Italia di Jannik Sinner.
“Se fossi nato oggi – dice Nargiso –troverei un mondo completamente diverso, un’atmosfera più serena e punti di riferimento chiari.”
È la frase chiave dell’intervista, e fotografa il senso di una distanza non solo tecnica, ma culturale. Quella tra un’Italia del tennis smarrita e l’Italia di oggi, che invece naviga con una direzione precisa.
Negli anni Ottanta e Novanta, quando Nargiso esplose come promessa, il tennis viveva una trasformazione profonda. La rivoluzione nel sistema di calcolo del ranking ATP cambiava il modo di programmare, le superfici si specializzavano, la preparazione fisica diventava imprescindibile. “Il problema -racconta – è che noi fummo colti di sorpresa. Ci allenavamo tanto, sei o sette ore al giorno, ma in modo sconnesso. Non esisteva una visione d’insieme, né un coordinamento tra i diversi aspetti della formazione.”
Quella di Nargiso fu una generazione di mezzo: dopo Panatta, Bertolucci e Barazzutti, ma prima del nuovo corso. Nel mezzo, un gruppo di ottimi giocatori – Andrea Gaudenzi, Omar Camporese, Renzo Furlan, Cristiano Caratti, Paolo Canè – che si muoveva in un sistema fragile, privo di progettualità. “Non c’era un piano comune, una direzione condivisa. E quando ognuno tira per sé, la forza si disperde. La crescita diventa discontinua, e nessuno fa sistema.”
L’autocritica di Nargiso è molto lucida e onesta: “Siamo cresciuti disorientati. Abbiamo dovuto imparare da soli, e così ci siamo persi.”
A mancare, spiega, non era la passione né il lavoro, ma la cultura del processo. “Una sconfitta veniva vissuta come un fallimento, invece di un’occasione per imparare. E quando un diciottenne smetteva di essere un junior, la Federazione smetteva anche di seguirlo“.
Chi riusciva a trovare un mentore sopravviveva. Furlan e Caratti, seguiti da Riccardo Piatti fin da ragazzi, furono tra i pochi a compiere la transizione con successo. Ma la maggior parte si perse. “Io avevo Bosch e Bollettieri che mi volevano – ricorda Nargiso – ma ero troppo immaturo per gestirmi da solo. Tutti mi tiravano da una parte diversa, e io non avevo ancora la forza per scegliere. Mi dissero di non giocare la Davis finché non fossi stato pronto fisicamente, ma io volevo rappresentare l’Italia, volevo Panatta come capitano. Quella passione mi ha dato tanto, ma mi ha anche distratto dal mio percorso.”
La generazione di Nargiso fu vittima anche di un tennis italiano frammentato, in perenne conflitto con sé stesso. “C’erano i sostenitori della Coppa Davis e i detrattori. E un ambiente diviso non aiuta chi deve crescere.”
Senza una direzione condivisa, ogni sforzo restava isolato. “Ci allenavamo tanto, ma male – dice – e mancava la curiosità di capire cosa servisse davvero per fare il salto di qualità. Il tennis stava diventando più atletico, più globale, ma noi restavamo legati ai metodi del passato.” Era, in fondo, un’Italia sportiva ancora artigianale, dove il talento individuale valeva più della struttura. Un’Italia in cui si vinceva “di genio”, ma non di metodo.
Oggi, osserva Nargiso, la scena è completamente diversa. “C’è una struttura federale forte, un sistema organizzato che cresce e si rinnova.”
Il merito, dice, è anche del lavoro di Michelangelo Dell’Edera, direttore dell’Istituto Superiore di Formazione. “Ha costruito una scuola moderna, aperta, capace di formare tecnici preparati, aggiornati e consapevoli. Oggi gli allenatori italiani non sono solo maestri, ma educatori. E si confrontano costantemente con i colleghi stranieri, in un continuo scambio di idee.”
È, in un certo senso, la vera rivoluzione: l’Italia del tennis è diventata un laboratorio di competenza. “Questo è il modello che gli altri paesi cercano di imitare.” E poi c’è SuperTennis TV, l’altra grande intuizione del presidente Angelo Binaghi. “Ha portato il tennis nelle case della gente,” sottolinea. “Ha avuto un impatto educativo e promozionale enorme.”
Perché il tennis, come ogni sport, vive di passione condivisa. E la passione, quando è alimentata, genera cultura.
La parte più visionaria dell’intervista arriva nel finale. Nargiso cita le parole di Binaghi: “Stiamo lavorando per quando Sinner non ci sarà più, con dieci anni di anticipo.” Dopo il boom del 1976, il movimento maschile si spense. Dopo la grande stagione delle ragazze – Schiavone, Pennetta, Errani, Vinci – non arrivò una vera eredità. Oggi, invece, si pianifica.
“Quando arriveranno tempi difficili – dice Nargiso – la federazione dovrà garantire un gruppo ampio di giocatori di alto livello. Come la Francia, che però da anni non trova un altro Noah. Se continueremo a spingere tutti nella stessa direzione, non lasceremo più scappare un campione.”
In fondo, tutta la parabola di Nargiso si può leggere come una metafora dell’Italia sportiva. Un Paese che ha spesso avuto il talento ma non la struttura, la passione ma non la continuità.
Oggi, invece, almeno nel tennis, sembra aver trovato un equilibrio nuovo. Un equilibrio fatto di metodo, competenza e condivisione.
Diego Nargiso non cerca rivincite. Non si lamenta del tempo in cui è nato. Ma nelle sue parole si percepisce una gratitudine autentica: quella di chi vede, finalmente, compiuto ciò che la propria generazione aveva solo intuito. L’Italia del tennis, oggi, è una realtà strutturata e consapevole. Dietro ai risultati di Sinner e degli altri c’è un sistema che funziona, con tecnici formati, risorse condivise e una visione comune.
Ed è forse questo il segreto di un movimento che, finalmente, sembra aver trovato una direzione stabile.
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