Federica Pellegrini, campionessa olimpica e membro del CIO in quota atleti, ha scelto le colonne di Repubblica per esprimere un punto di vista netto sulla vicenda che ha coinvolto Jannik Sinner e i protocolli antidoping. Un’opinione che non manca di suscitare riflessioni, soprattutto per il tono pacato ma diretto con cui affronta la questione.
“Jannik è molto amato e dunque viene difeso sotto ogni aspetto, a prescindere, e questo lo trovo giusto”, premette la Divina, quasi a voler chiarire che non si tratta di un attacco personale, bensì di un’osservazione più ampia sul sistema. Poi, però, il passaggio che non lascia spazio ad interpretazioni: “Credo, però, che la sua vicenda sia stata trattata diversamente dal 99% dei casi”.
La Pellegrini entra nel merito di un tema spesso ignorato dal grande pubblico: la complessità della vita di un atleta costantemente soggetto a controlli antidoping, in competizione dodici mesi l’anno. “Bisognerebbe spiegare come funziona, per comprendere davvero cosa c’è dietro il caso Sinner”, sottolinea. Il discorso si allarga anche alla responsabilità oggettiva del team, concetto spesso sottovalutato ma centrale nei regolamenti antidoping. “Non è che se il mio fisioterapista si beve una birra e investe qualcuno la colpa è mia – osserva con una metafora efficace – ma diventa mia responsabilità se usa una crema su di me e io risulto positiva”. Un principio valido per tutti, ribadisce l’ex nuotatrice, senza eccezioni: “Non è il caso Sinner ad essere strano. Vale per ogni atleta. Perché, allora, questo caso deve essere trattato in modo diverso?”.
“In questo caso è stato diverso – aggiunge – la soluzione è arrivata solo dopo i ricorsi della WADA. Una sospensione immediata non c’è stata”. Nessun intento punitivo nelle sue parole, ma un’analisi concreta dei fatti: “Non dico che ci dovesse essere. Ma di fatto è stato trattato come un caso differente dal 99% degli altri atleti che si sono trovati a pagare per una negligenza”.
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Autor: Carlo Galati