Swiatek (…e Sinner): il garantismo è il vero fair play

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È in un freddo pomeriggio di fine novembre, quelli in cui l’inverno non è più un’opinione, ma uno status quo, che la notizia di violazioni delle norme antidoping, da parte di Iga Swiatek, ha nuovamente incendiato il dibattito sportivo mondiale su un tema che inevitabilmente tocca i principi di correttezza e lealtà su cui si basa lo sport. Iga Swiatek e Jannik Sinner: da un ciclone mediatico ad un altro, da una querelle giudiziaria all’altra. Ma al di là del clamore, c’è un principio che non possiamo permetterci di tradire: il garantismo.
Senza voler entrare troppo nel dettaglio, cosa che invece ha fatto molto sapientemente Vanni Gibertini, non può sfuggire che ormai viviamo nell’era delle condanne istantanee, dove il processo mediatico (e social) spesso precede – e talvolta sostituisce – quello giudiziario. Basta un’accusa, una voce, e la macchina del fango si mette in moto. Per due atleti come Swiatek e Sinner, il rischio potenziale è devastante: reputazioni costruite con anni di lavoro, distrutte in pochi titoli di giornale.

La giustizia dello sport non può diventare un’arena gladiatoria

Il garantismo non è una scappatoia per chi sbaglia, ma una tutela per chi è innocente. Significa che, fino a prova contraria, fino all’ultimo grado di giudizio, Swiatek e Sinner devono essere considerati puliti. Significa che le accuse devono poggiare su prove solide, su attestati di colpevolezza, in cui la volontà di dolo o colpa sia talmente concreta, da bypassare, di fatto, i punti 10.5 e 10.6 del TADP (Tennis Anti Doping Program) quelli in cui si parla di no fault or negligence e di no significant fault or negligence da parte degli atleti coinvolti. Ed è proprio qui che lo sport deve dimostrare maturità: non si tratta solo di combattere il doping, ma di farlo nel rispetto dei diritti degli atleti, cercando di trasformare la lotta al doping nella ricerca ossessiva di un colpevole da sacrificare sull’altare di una finta eticità. Sinner e Swiatek non sono solo campioni sul campo: sono modelli di comportamento e integrità per milioni di persone. Questo non li rende immuni dalle regole, ma dovrebbe indurci a una maggiore prudenza nel giudizio. L’immagine di uno sportivo si costruisce con sudore e sacrifici di una vita e si può distruggere con la stessa rapidità di un tweet.

Oltre le accuse: una riflessione più ampia sul sistema

C’è un problema strutturale nel modo in cui affrontiamo casi come questi. Le indagini sul doping spesso si trasformano in pretesti per poter indicare la gogna come unica soluzione ai litri di vomito e bile che le tifoserie malate devono, gioco forza, indirizzare verso qualcuno o qualcosa, mentre gli atleti vengono lasciati soli a difendersi. È davvero questo il modello di giustizia che vogliamo nello sport? Lotta al doping non significa solo scovare i colpevoli, ma anche garantire processi equi, trasparenti e rispettosi. Non si può sacrificare il principio di innocenza sull’altare del sensazionalismo.

Lo sport è anche una lezione di civiltà

La vicenda di Swiatek e Sinner è un test per tutti noi, non solo per loro. Sapremo attendere i risultati delle indagini senza farci travolgere dalla tentazione di giudicare? Sapremo riconoscere che il fair play non si pratica solo sul campo, ma anche fuori, nel modo in cui trattiamo chi è sotto accusa? La risposta a queste domande dirà molto di più sul mondo dello sport che non l’eventuale esito di questa storia. Perché alla fine, il vero trionfo non è solo colpire chi sbaglia, ma proteggere chi è innocente. E questo, oggi più che mai, è il match più importante da vincere perché il garantismo non è un lusso, è un diritto.

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Autor: Carlo Galati